Mea culpa, mea culpa, mea maxima culpa….

Mi ricordo delle domeniche della mia infanzia in cui, la mattina, non potendo sottrarmi alla messa tradizionale anche se ne ero stufo, mi toccava ripetere tre volte di seguito queste parole colpevolizzanti.
E tutti, sotto la volta della chiesa, salmodiavano l’atto di accusa con lo stesso tono, come per imprimercelo dentro, persuadendoci di essere definitivamente peccatori spaventosi… Le parole non bastavano, per cui bisognava accompagnarle con il gesto accusatore, percuotendosi il petto tre volte; poi, con lo sguardo fisso sul banco di legno in cui ci saremmo da li a poco inginocchiati, bisognava meditare sulla nostra misera condizione di peccatori.
Esperienze del genere sono comuni a moltissime persone, e nessuno protestava: era così e basta. All’epoca, i ragazzini come me dovevano portare i capelli corti, ben pettinati, e a messa si andava con il vestito buono.
Il prete sosteneva che questo era rendere degnamente omaggio a Dio. Dio? Ce lo mostravano crocifisso, insanguinato, ed era l’unico a non avere il vestito della festa (e per una buona ragione), l’unico che poteva portare i capelli lunghi.
Mi ricordo che un giorno, durante una di queste messe domenicali, all’improvviso ebbi il coraggio di alzare il capo, mentre pronunciavo la famosa autoaccusa rituale.
Mea culpa per cosa? – mi chiesi. – Mea culpa per cosa?”
Avevo forse dodici anni il giorno che questo interrogativo si affacciò alla mente in un lampo di lucidità. Fu, evidentemente, un’ “illuminazione” di breve durata, perché quando il sacerdote si accorse che il capo era vergognosamente alto, mi scoccò uno sguardo severo, carico di rimprovero: avevo appena peccato, prolungando così l’abominevole “Caduta” dell’umanità!
Oggi, ricordando quell’episodio, penso che abbiamo effettivamente cambiato millennio, e per certi versi, abbiamo anche cambiato… galassia. E questo è un bene, anche se ufficialmente nel nuovo mondo che abbiamo partorito le cose non sembrano andare meglio: è un bene, perché era urgente smuovere dalle fondamenta l’edificio della nostra società, rimmettendone in discussione i valori, a cominciare da quelli della vita interiore. Quando, oggi, andiamo in cerca di Qualcosa infinitamente più grande di noi, spinti da una fede alla quale non diamo necessariamente un nome, come potremmo guardare la Luce se siamo intorpiditi dall’abitudine a credere che occorra chinare il capo per meditare ed essere “salvati”?
Non vi è forse una differenza enorme tra la giusta umiltà che ci fa crescere, e la sottomissione a concetti che, più che redimerci, ci inchiodano a terra?
Per uscire da questo doloroso e cronico dualismo, direi che l’interrogativo da porsi non è “quale debito dobbiamo pagare?”, bensì “abbiamo davvero un debito da pagare? E a chi?”.
In altri termini, occorre riflettere una buona volta su questa terribile Caduta, sul famoso peccato originale che avremmo ereditato dai due antenati disobbidienti, Adamo ed Eva; se ci pensiamo un poco, anche se comprendiamo facilmente che si tratta di una coppia archetipica, che rappresenta l’umanità nel suo errare dopo essersi allontanata dal Creatore, questo non ci fa avanzare di un passo.
Non abbiamo molti elementi per capire la natura della disgrazia che questi nostri antenati ci avrebbero trasmesso; ci è solo stato insegnato ad accettarla come un fatto scontato, a subirla fino alla nostra eventuale salvezza che, ovviamente, dovrà passare attraverso il rifiuto della materia e, testualmente, attraverso il “timore di Dio”.
E’ difficile immaginarsi una più efficace lezione di fatalità e dualismo!
Diventa dunque una sfida vea e propria anche solo immaginare serenamente di poter ristabilire il contatto con la nostra essenza divina prima di un certo “giudizio universale”.
Il dilemma pare davvero complicato, e non ci resta che comprendere al meglio gli elementi che lo compongono […] Il primo punto da chiarire mi sembra quello che ci ha separati non da Dio ma dal Divino.

© DANIEL MEUROIS
Advaita: anatomia del divino
Edizioni Amrita

traduzione di Daniela Muggia